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Qualche tempo fa, all’interno di un libro sulle emozioni e sul loro impatto nella nostra sfera comportamentale, lessi alcuni spunti interessanti sull’acqua e sulle sue qualità ispiratrici per la vita umana. Nel nostro linguaggio ricorre spesso il richiamo all’acqua di fiume per indicare la capacità di scorrere senza fermarci dinanzi agli ostacoli, seguendo il flusso; ma l’acqua è anche simbolo di trasformazione, grazie a una serie di caratteristiche che possono stimolare il nostro mondo interiore. Quando scende lungo i fianchi di una montagna, è tanto fluida e limpida quanto potente nello scolpire le rocce. È conduttrice di energia ed elargitrice di vita. Si muove incessantemente e, stimolata da una fonte di energia, può cambiare forma trasformandosi in vapore o in un solido blocco di ghiaccio.

Se volgiamo lo sguardo su noi stessi, ci accorgiamo invece di quanto l’uomo sia facilmente refrattario al cambiamento. Una delle frasi più usate è “È sempre stato così” o “Abbiamo sempre fatto così”. A lungo, negli ambiti della crescita personale si è parlato a tal proposito di comfort zone (zona di comfort): la condizione mentale che induce a ristagnare in situazioni bene o male ritenute “comode”. In realtà, gli studi dell’analista Virginia Satir hanno evidenziato che uno dei nostri istinti più forti è quello di aggrapparci a ciò che è familiare. Da qui la sostituzione del concetto di comfort zone con quello di familiar zone. Alla luce della sua esperienza, la psicoterapeuta ha elaborato un modello prezioso per capire meglio cosa scatta in noi quando ci troviamo ad affrontare un cambiamento e come possiamo gestirlo al meglio, senza timore degli scombussolamenti iniziali che porta con sé. È il cosiddetto Satir Change Model, che si divide in 5 fasi.

La prima è denominata “Late Status Quo” e rappresenta il momento in cui siamo perfettamente identificati con ciò che è familiare (un gruppo di persone, una situazione professionale ecc.). A questo livello ci sentiamo sicuri, sappiamo cosa aspettarci dall’ambiente circostante. Le fluttuazioni nella nostra quotidianità sono minime o irrilevanti e, a prescindere che quel contesto ci piaccia o meno, non ci passa per l’anticamera del cervello di cambiare qualcosa. Ci basta il senso di protezione che lo status quo offre: anche se arreca insoddisfazione, dolore o ansia, sono sensazioni ancora tutto sommato tollerabili.

La seconda fase prende il nome di “Foreign Element” ed è caratterizzata dal sopraggiungere di un elemento estraneo che interferisce con lo status quo e le emozioni associate, ribaltando aspettative e/o convinzioni. Tale elemento richiede una risposta che destabilizza il senso di familiarità intrinseco allo status quo, portando al contempo nuove consapevolezze.

Segue la fase nota come “Caos”, durante la quale entriamo in territori inesplorati. È un vero e proprio momento di cortocircuito. Le nostre ancore cominciano a sgretolarsi, mettendo a dura prova relazioni, convinzioni e aspettative. Tutto ciò che appartiene al passato inizia a starci stretto e a perdere di efficacia. L’elemento estraneo apre la strada alla confusione, mentre i comportamenti nostri e del nostro ambiente cominciano a cambiare visibilmente. Questa fase è segnata da emozioni intense. Vulnerabilità e idee si affastellano disordinatamente nella nostra testa, provocando ansia. È un momento in cui per ogni passo in avanti tendiamo a farne uno indietro, rispondendo agli eventi in modo atipico. Perdiamo la nostra centratura, assumiamo atteggiamenti ora aggressivi ora remissivi, ci sganciamo da ciò che è familiare per poi farvi ritorno, ci focalizziamo ossessivamente sul problema o lo ignoriamo del tutto. Annaspiamo nel tentativo di reperire quante più informazioni per trovare una via d’uscita e accettare/integrare l’elemento estraneo nella nostra vita. Scivoliamo tra comportamenti efficaci ed azioni disfunzionali. Il cambiamento inizia a filtrare prepotentemente nelle nostre giornate, scandendo il tempo a ritmo dell’incertezza. La fase del “Caos” ha in sé un enorme potenziale creativo e trasformativo, che richiama la necessità di accogliere le nostre emozioni e che rischiamo di ignorare a causa dello stress o della paura.

La fase successiva è quella chiamata “Integration”. Durante la fase del “Caos” la nostra mente produce numerose idee creative, tra le quali una – la cosiddetta idea trasformativa (transforming idea) – giustifica perfettamente la presenza dell’elemento estraneo nella nostra vita e ci consente di gestirlo al meglio. A questo punto possiamo cominciare a testare e sperimentare in vario modo il nuovo comportamento o idea, senza preoccuparci degli sbagli ma approfittandone per progredire e affinare la nostra comprensione dell’elemento estraneo. Capendo cosa funziona e cosa no, i nostri orizzonti si allargano e la nostra resa aumenta, spesso superando i livelli precedenti all’arrivo dell’elemento estraneo. L’idea trasformativa può sopraggiungere in un momento di illuminazione e donarci leggerezza e/o liberazione. Comincia così a delinearsi un nuovo senso di identità e appartenenza, che sottende comportamenti e aspettative prima sconosciuti. È il momento in cui siamo spinti dall’entusiasmo di sentirci cambiati. Un cambiamento che abbiamo cominciato non solo ad apprezzare, ma a fare nostro.

L’ultima fase prende il nome di “New Status Quo”. Qui accordiamo comportamenti ed emozioni al cambiamento avvenuto. La nostra resa è ai massimi livelli e anche l’ambiente esterno ne beneficia. Siamo centrati, realizzati, elettrizzati, fiduciosi, con nuove frecce al nostro arco. L’esperienza vissuta ci ha insegnato molto, contagiando anche altre aree della nostra vita. Il cambiamento, integrato, si trasforma in un nuovo status quo.

Attraversando i cambiamenti della vita e accogliendone le sfide, possiamo quindi schiudere le porte a nuove dimensioni del nostro essere, prima esistenti solo in potenziale. Ogni volta che un elemento estraneo giunge a scombussolare la nostra esistenza, abbiamo l’occasione di trasformarci e acquisire una nuova pelle.

Torna in nostro aiuto la natura col suo simbolismo intrinseco nella figura del serpente, emblematica della metamorfosi. Specie nelle culture antiche, esso veniva considerato un animale ctonio, simbolo di vita e di morte, associato al concetto di rinascita. Pensiamo a Esculapio, il cui bastone è un serpente attorcigliato a spira attorno a una verga, a indicarne il potere rigenerativo e curativo; o agli asklepieia, i templi dei sacerdoti del dio dove la guarigione avveniva di notte, nel sonno, e dove venivano allevati serpenti per ricavare farmaci dal loro veleno. Sono inoltre emblematiche la Dea dei serpenti e le figure fittili della cultura minoica, rappresentanti giovani donne (probabilmente sacerdotesse) che stringono in mano serpenti, simbolo di cambiamento e fertilità. Nei testi tantrici il serpente è un simbolo potentissimo di cambiamento, raffigurante la kundalini: l’energia divina presente in ogni essere umano, identificata come un ofide che giace quiescente alla base della colonna vertebrale e che, se risvegliato, si drizza sulla punta della sua coda come un bastone equilibrando e attivando tutti i chakra, i centri di energia dislocati lungo la linea verticale che va dalla testa all’addome.

Analizzando il processo che scandisce la muta del serpente, emergono diversi elementi in comune con il modello di cambiamento di Virginia Stir. Il serpente cambia pelle quando lo strato superficiale della sua epidermide, avendo ormai perso elasticità e capacità rigenerativa, gli impedisce di crescere. Qualche tempo prima della muta, l’animale va incontro a una serie di fasi funzionali al cambio di pelle ma complesse: diventa inattivo per protezione (perché vulnerabile nell’ambiente in cui vive), perde appetito e si disidrata. La sua muta avverrà quando il vecchio abito sarà ormai troppo stretto per accogliere il nuovo corpo.

Le dinamiche della muta del serpente richiamano alla mente la neuroplasticità umana, ovvero la capacità del sistema nervoso di modificarsi in risposta all’esperienza e alla crescita, cambiando l’intensità delle relazioni tra neuroni (sinapsi), integrandone di nuove o eliminandone di obsolete. La scoperta di questo paradigma è una novità degli ultimi decenni nel settore delle neuroscienze. Fino agli anni ’60 si credeva infatti che le modifiche nel cervello umano avessero luogo solo fino a una certa età, superata la quale si fermavano.

In tal senso il coaching è davvero prezioso, supportando un processo individuale che è tutt’altro che semplice e indolore. A lungo si è pensato che la chiave per ribaltare le nostre abitudini disfunzionali fosse la forza di volontà, ma le neuroscienze oggi forniscono una spiegazione più accurata, dimostrando che le abitudini stesse modificano l’attività cerebrale. La messa in atto di un nuovo comportamento provoca cambiamenti nei circuiti cerebrali che, con la ripetizione nel tempo, si rafforzano. Questo meccanismo è vagamente assimilabile alla tecnica digitale del morphing, che permette di elaborare un’immagine trasformandola gradualmente da una forma iniziale a una di arrivo, credibile e naturale quanto la prima.

Il tutto avviene perché, come afferma Tara Swart nel suo libro Neuroscience for Leadership[1], il nostro cervello è intrinsecamente pigro, ottimizza la sua attività scegliendo sempre il percorso che richiede il minor dispendio di energie. I comportamenti ripetitivi e i modelli su cui questi si basano vengono identificati, memorizzati e reiterati a livello dei gangli di base che scambiano informazioni con la corteccia prefrontale, direttamente responsabile del mantenimento dell’attenzione e della programmazione di risposte comportamentali.[2] Non solo, la corteccia prefrontale è direttamente collegata a funzioni cognitive importanti come la creatività, l’innovazione e i processi decisionali[3]:

A livello neuronale, il cervello è costruito per identificare cambiamenti nel nostro ambiente e inviare forti segnali di allerta quando avviene qualcosa di insolito. I segnali di rilevamento di errore vengono generati da un’area del cervello chiamata corteccia orbitale (che si trova a destra, sopra i bulbi o le orbite oculari), strettamente connessa al circuito cerebrale preposto alla paura nella cosiddetta amigdala. Queste due aree collaborano con la regione prefrontale.[4]

Secondo il neuroscienziato Jeffrey Schwartz, uno degli strumenti più potenti per favorire il cambiamento a livello cerebrale, e quindi di vita, è la “densità dell’attenzione”, che richiede un investimento notevole di attenzione su ciò che vogliamo trasformare: un’idea, un comportamento ecc.

Alla luce di queste conoscenze, è facile capire la nostra naturale resistenza al cambiamento: quanto più cerchiamo di imporre una modifica o una correzione a livello individuale e/o di gruppo, tanto più facilmente può scattare il rifiuto a integrarla. Il nostro cervello ama trovare da sé le soluzioni e, quando lo si lascia lavorare in tal senso, ci ripaga con sensazioni di piacere e focalizzazione.

È qui che il coaching svolge un ruolo fondamentale: tramite la maieutica, ovvero l’arte di porre le cosiddette “domande potenti” che ampliano opzioni e prospettive, favorisce un cambiamento sostenibile. Il suo approccio orientato alla soluzione, piuttosto che al perché e al passato, soddisfa il bisogno del cervello di trovare autonomamente le risposte per gestire al meglio un cambiamento in atto o prossimo a manifestarsi. In questo senso nel coaching siamo soliti dire che il nostro cliente è l’esperto del suo successo. Nel suo libro Your Brain at Work[5], David Rock evidenzia inoltre l’importanza della pratica e della ripetizione di cui il coaching è strumento. Tramite una serie di tecniche specifiche, il coach aiuta infatti il partner (il cliente) a esercitare quotidianamente l’arte della valutazione, esplorazione, riconsiderazione, irrobustendo le connessioni tra la corteccia prefrontale e il sistema limbico e rendendo di volta in volta sempre più facile e immediata la messa in atto di comportamenti funzionali.

Ciò che compiamo nella nostra vita è “programmato” e gestito a livello cerebrale. Raramente siamo consapevoli delle idee e convinzioni che hanno contribuito a formare le abitudini mediante le quali interagiamo con il nostro ambiente. Una trasformazione autentica richiede la creazione di nuovi circuiti cerebrali, un processo che richiede concentrazione e attenzione, ma anche pazienza con se stessi assieme a una buona dose di entusiasmo e, perché no?, divertimento. Il coaching fornisce in tal senso un supporto sostanziale favorendo l’autonomia, l’impegno e il coinvolgimento della persona, riconsegnandole il potere dell’autodisciplina e del controllo consapevole delle proprie azioni.

L’ambizione del coaching è sintetizzata perfettamente nelle parole di David R. Buchanan, nell’articolo “A New Ethic for Health Promotion: Reflections on a Philosophy of Health Education for the 21st Century”:

In conclusione, ritengo che invece di investire tutto il nostro tempo e la nostra energia nel creare tecnologie di controllo del comportamento, dovremmo muoverci nella direzione diametralmente opposta. Ovvero, fare tutto ciò che è in nostro potere per aumentare l’autonomia dell’essere umano. Piuttosto che cercare di sviluppare programmi sempre più efficienti per l’alterazione del comportamento umano, dovremmo focalizzarci sull’aiutare le persone a sviluppare processi decisionali indipendenti affinché si allineino con la migliore comprensione possibile di ciò che è bene per la loro vita.

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[1] Tara Swart, Neuroscience for Leadership, Palgrave Macmillan, 2015.

[2] Giusti Edoardo e Chiacchio Antonio, Ossessioni e compulsioni. Valutazione e trattamento della psicoterapia pluralistica integrata, Sovera Edizioni, 2002.

[3] Amy Brann, Neuroscience for Coaches, Kogan Page, 2014.

[4] “A Brain-Based Approach to Coaching” di David Rock.

[5] David Rock, Your Brain at Work, HarperBusiness, 2009

Dott.ssa Paola Mastrorilli

Professional Coach

E-mail: paolamas76@gmail.com

foto.paola.mastrorilli

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