Rivista medica online
rivista-online

Essere di animo sensibile: cosa significa? E soprattutto: è un bene o un male?

In psicologia, con la parola “sensibilità” si indica l’intensità soggettiva con cui percepiamo un determinato stimolo e reagiamo ad esso. Infatti, fin dai primi studi sul modo in cui noi percepiamo la realtà fisica attraverso i nostri sensi, ci si è accorti che non esiste una corrispondenza puntuale tra le variazioni nel mondo fisico e le variazioni nella nostra percezione: «Perché l’intensità di una sensazione cresca in progressione aritmetica, lo stimolo deve accrescersi in progressione geometrica» (legge di Fechner, 1860).
Se parliamo di emozioni, tendiamo ad attribuire una valenza positiva alla sensibilità, come ad un tratto di umanità. La sensibilità intesa in questo senso coincide largamente con il concetto di empatia: la risonanza o rispecchiamento emotivo che ci fa sentire le emozioni degli altri, e in tal modo comprenderle. E’ bene tenere presente che noi percepiamo il senso dell’esperienza altrui attraverso il nostro stesso “sentire”; sentiamo le emozioni degli altri, e ne siamo dunque sensibili, attraverso le nostre emozioni.
Osservando la questione della sensibilità da questa prospettiva, potremmo immaginare che in alcuni di noi questo “sistema di rispecchiamento empatico” sia più potente o più fine, mentre in altri questo rispecchiamento avvenga in forma minore o più grossolana. In questa accezione, tendiamo a considerare l’essere iper-sensibili più come una virtù che non come un difetto; al massimo possiamo riconoscere che esistano degli effetti collaterali, un po’ come immaginare che avere un udito sensibile è un problema perché basta un brusio minimo per tenerci svegli la notte. Di contro, una mancanza di sensibilità (intesa come deficit di empatia) è stata proposta da alcuni studiosi (Baron-Cohen) come possibile spiegazione del male (inteso come crudeltà: “fare del male”).
Tuttavia, se non ci limitiamo alla sensibilità intesa come capacità di empatizzare con gli altri, e pensiamo più in generale all’impatto emotivo che gli eventi hanno su di noi, ci accorgiamo che l’iper-sensibilità non segnala soltanto una qualità positiva del nostro animo, ma può costituire un vero e proprio problema: quando la nostra risposta emotiva è eccessiva e difficile da regolare.
In altre parole, “iper-sensibile” potrebbe essere qualcuno che “sente” alcune emozioni ad un volume troppo alto, assordante. Questa metafora ci aiuta a immaginare una risposta psicofisiologica eccessiva, che ci fa sentire ad alto volume ma ci rende difficile ascoltare. Stiamo anche sostenendo che le emozioni siano come un linguaggio, e che non basti avere gli organi di senso ben sviluppati per poter sentire: bisogna anche ascoltare e comprendere. Perché allora certe emozioni possono risultare “assordanti”? Perché la nostra sensibilità può rivoltarsi contro di noi e, paradossalmente, rendere meno facile per noi ascoltarle?
Come anticipato, le emozioni sono un linguaggio universale, che serve a comprendere ciò che accade dentro di noi e nei nostri simili, e che nella nostra specie si perfeziona fin dai primi giorni di vita attraverso l’esperienza di relazione con gli altri. In particolare, impariamo dagli altri a riconoscere le nostre emozioni, a dare loro un nome e un significato, a riconoscerne la naturale variabilità, a tollerarne gli alti e bassi. Tutto questo si chiama regolazione emotiva. Possiamo immaginare che, in un ambiente relazionale poco favorevole ad esplorare e conoscere una o più emozioni, per alcune persone sia stato difficile imparare a capirne il senso, cioè a rendersi conto di cosa stiano provando e perché. Possiamo immaginare addirittura che alcune emozioni possano essere state, nell’esperienza di qualcuno, “pericolose” da provare. In questi casi, quando le nostre emozioni finiscono per disorientarci o spaventarci, ritroviamo il problema dell’intensità, il “volume troppo alto” di cui parlavamo prima. Le nostre emozioni cercano di dirci qualcosa, ma siccome noi non capiamo allora loro aumentano il volume; purtroppo però urlare non serve a renderci comprensibile una lingua che non conosciamo: aumenta solo il frastuono e il senso di disagio.
In conclusione…
La sensibilità d’animo coincide con l’intensità della nostra risposta emotiva agli eventi. E’ importante tenere presente che noi sentiamo le nostre stesse emozioni, e comprendiamo attraverso di esse noi stessi e gli altri. Il lato che consideriamo più “nobile” di questa sensibilità è quello che ha una funzione evoluzionistica prosociale: prendersi cura degli altri empatizzando con il loro disagio e comprendendo i loro bisogni.
Ma le emozioni non servono solo a questo, servono più in generale ad orientarci reciprocamente nei rapporti interpersonali. E’ una forma di comunicazione, e non è sufficiente avere un buon udito: serve anche una capacità di comprensione. A volte qui emerge il “lato oscuro” di quella che chiamiamo sensibilità: una iper-reattività emozionale accompagnata da un indebolimento nella spontanea comprensione del significato di ciò che le emozioni ci comunicano.

Dott. Maurizio Brasini
Psicoterapeuta cognitivo-evoluzionista
Docente Universitario di Psicoterapia Individuale presso L’Università dell’Aquila
Scuola di Psicoterapia cognitiva di Roma – www.apc.it

foto - Dott. Maurizio Brasini

Share This: