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Immedesimazione e neutralità nel coaching: un viaggio intimo tra maschere e musica

La bellezza, la sensualità e il potere che ami nell’altro sono spesso un riflesso di te…

Quella attuale è un’epoca tumultuosa e contrastante, ma anche feconda in termini di consapevolezza. Il chiaroscuro non risiede tanto nelle trasformazioni politiche, ambientali ed economiche, che tutto sommato fanno parte del gioco della vita e incidono la storia sul nastro del tempo, quanto negli sconvolgimenti di senso a cui siamo chiamati e nelle conseguenti difficoltà comunicative. La tecnologia, ormai compagna di vita quotidiana, filtra la nostra percezione degli eventi ma, al contempo, amplifica la connessione con il mondo esterno. La velocità dei ritmi esistenziali impone un adattamento al cambiamento che può spaventare, alienare, ma anche sobillare un richiamo prepotente a un “ascolto olistico”. Ci riferiamo qui a un ascolto a 360° che coinvolge l’altro a partire da sé.

Il diritto violato all’ascolto riverbera frequentemente nel linguaggio comune. La frustrazione dell’essere ignorati è alla base di atteggiamenti difensivi o di attacco, che possono rendere i rapporti interpersonali un vero e proprio incubo. Una delle questioni umane più annose è infatti l’interazione inefficace col mondo circostante, che deriva da una incapacità di capire la propria lingua fatta di metafore, simboli e contenuti. La radice di molti “mali”, in termini di comunicazione, è nel saltare questo passaggio fondamentale che il coaching aiuta a trasformare in sfida evolutiva.

Ecco la fertilità di questo momento storico, in cui abbiamo la libertà di guardarci attorno con occhi più accesi sulle dinamiche relazionali. È in nostro potere, quando lo vogliamo, annullare l’isolamento e gettare un ponte sullo spazio che ci separa dagli altri. Un approccio che, affinato con lucida coscienza, può soddisfare una delle ragioni più potenti dell’esperienza umana: il desiderio di essere compresi. Qui l’ascolto gioca un ruolo fondamentale. Essere ascoltati significa essere presi in considerazione nei nostri sentimenti, valori e idee come valenza, e magari incidenza, nel nostro ambiente relazionale.

Presupposto di un buon ascolto è l’empatia (dal greco empatheia, composto da en, “dentro”, e pathos, “affetto”), ovvero la capacità, in parte intuitiva e in parte conscia, di sospendere o integrare la propria esperienza personale con quella altrui. È il filo di connessione, come lo tsaheylu nel film Avatar, precipuamente umano che consente di comprendere ciò che è “estraneo”, riconoscendone i tratti caratteristici fino a sentirli propri. Può avvenire tra persone, ma anche verso cose (vd. il rapporto poetico che spesso lega uomo e natura).

È un po’ come spostarsi da sé, aprire le porte al proprio universo di senso per inglobare quello altrui. Nutrire la propria identità con spicchi dell’altro, che diventa letteralmente parte attiva di noi. Quello che siamo oggi è così frutto della nostra esperienza diretta e di quella di coloro su cui abbiamo proiettato la nostra luce, finendo per mettere maggiormente a fuoco noi stessi. In tal senso tramite l’ascolto empatico coviamo il potere metamorfico della relazione, che non solo cementifica il nostro legame con l’altra persona ma rafforza il nostro senso di sé.

Nella relazione di coaching l’empatia è cardine e si differenzia nettamente dalla simpatia. Quest’ultima equivale a sentire con. È un’emozione che induce a provare sentimenti simili a quelli di un altro e giustifica consigli, suggerimenti e prospettive per alleviare o celebrare una determinata condizione. Deriva dall’esigenza così umana di trovare soluzioni e fare qualcosa, ma ignora la dimensione più profonda del com-prendere, che restituisce potere all’altro e fiducia nella sua capacità di trovare una via per convogliare emozioni e azioni.

Come coach siamo chiamati a esercitare quotidianamente l’empatia per metterla al servizio dei nostri sodali, nonché per aiutarli a consolidarla a loro volta. Lo facciamo accogliendo gli eventi della quotidianità e perfezionando l’arte dell’autoascolto. Scivoliamo in abiti non nostri e da essi traiamo le sensazioni utili per aumentare la nostra comprensione. Consideriamo le difficoltà come un diapason per accordare la capacità empatica. Apprendiamo come danzare con l’altro, “sentirlo” e riconoscere il loro linguaggio, che impariamo con spirito esplorativo e curioso.

Sviluppare la tematica dell’immedesimazione in relazione ai processi di coaching significa portare il focus di qualsiasi analisi dritto al centro del vortice chiamato neutralità. Spesso si è propensi a credere che i processi psicologici di recupero dell’esperienza e del significato, che il coach vive quando incamera ed elabora la storia di un’altra persona, siano nemici del suo essere neutrale e quindi della sua efficacia professionale. In questo caso specifico siamo di fronte a un approccio confusionario, che mescola in un’unica soluzione la neutralità con l’insensibilità e pretende che un coach possa giungere a uno stato di proficua assenza di empatia, quasi fosse una sorta di agente segreto intento a estorcere una confessione a un malcapitato. Forse è vero proprio l’opposto e cioè che processualmente l’immedesimazione è lo stato obbligatorio che deve precedere la neutralità, favorendo la naturale transizione dall’una all’altra.

Ciò può essere corroborato da una valutazione di tipo strumentale, poiché il momento in cui ci s’immedesima nell’altro rappresenta un eccezionale serbatoio per attivare quelle domande e quelle tecniche utili al proprio compagno di percorso per costruire il suo comportamento. Senza un tale serbatoio diventa superfluo o addirittura banale accedere al proprio saper essere neutri, poiché non esisterebbe nessun insieme di elementi da proporre per trarre nuovi punti di vista. Al più si giungerebbe alla nefasta riproposizione di uno schema di coaching. Ma come possiamo pretendere di aiutare qualcuno a cambiare proponendogli come sistema l’applicazione di un processo immutabile e impermeabile? Probabilmente, l’unica realtà consistente è che per essere un buon coach occorre essere gli altri prima ancora che se stessi. La nostra capacità di sintonizzarci con l’altro o addirittura di viverlo dentro di noi non è un limite, ma un grande potere.

Per esaminare l’efficacia di questa combinazione tra immedesimazione e neutralità in modo scevro dalle pastoie del linguaggio tecnico, si è scelto di proporre un esempio simbolico di grande impatto scenico, cioè la tradizione del teatro greco. Lungi dal voler associare brutalmente il ruolo del coach a quello dell’attore, è fuor di dubbio che l’insieme delle tecniche di rispecchiamento utilizzate in momenti cardine della pratica del coaching, come la sintesi, il feedback e l’ascolto attivo, abbia un solidissimo legame con l’esercizio di una delle professioni di maggiore intrattenimento e gratificazione per l’essere umano.

Nel teatro della Grecia classica, come noto, gli attori indossavano delle maschere che avevano lo scopo di renderli identificabili a grandi distanze e amplificare la voce. Si tratta di due attributi primari che rappresentano una potentissima metafora del rapporto tra coach e compagno di viaggio. Quando ciascuno di noi indossa una delle infinite maschere, che si è imposto o scelto nella vita, è impossibilitato a riconoscerne i tratti indipendentemente dalla sua natura, a meno di non fronteggiare uno specchio. Si vive dietro la maschera, se ne vede l’interno e per un certo verso la si conosce molto più approfonditamente, ma non si possiede piena consapevolezza del suo effetto esteriore, della sua essenza fisica applicata al sé.

Come con le grottesche espressioni degli strumenti teatrali classici, attraverso l’immedesimazione, il coach si fa prototipo della maschera che l’altro sta indossando e gliela rende riconoscibile, anche nei dettagli più minuti, non importa quanto lontano egli voglia stare seduto nell’anfiteatro della sua vita. Questa funzione aiuta la persona a consapevolizzare idee e pensieri nascosti. Raccontare la sua esperienza a qualcuno che la comprende avvia un dialogo proficuo tra le sue voci interiori, l’avvicina a se stessa e le consente di scoprire risorse inimmaginate.

Anche la tematica dell’amplificazione della voce assume una dimensione fortemente esemplificativa. Tutte le scuole di coaching attualmente riconosciute puntano fortemente sul concetto di coach come cassa di risonanza del proprio partner: un amplificatore umano al servizio della presa di coscienza. In questa dimensione la funzione di aiuto completa il suo essere maschera nel far sentire all’altro con più forza la sua stessa voce che, liberata dal giogo dei meccanismi difensivi, raggiunge in modo forte e univoco la coscienza. L’auto-ascolto, esercitato dall’essere umano, diviene così integrato sia nella dimensione visiva che in quella uditiva, aprendo nuove vie di comprensione.

In tal senso l’empatia del coach è marcatamente ricettiva piuttosto che creativa. Un po’ come quando, guardando un’opera d’arte, testimoniamo un’esperienza esterna, il coach è testimone, e non giudice, di esperienze. Non annulla il suo giudizio, pena un atteggiamento asettico che impedisce di penetrare la realtà emozionale dell’individuo e fecondarne l’introspezione. (R)accoglie piuttosto il suo comunicato, sia esso parlato o agito e, amplificandone il significato, lo restituisce sotto forma di domande ispirate, feedback, prospettive, sintesi, invito a guardare le cose da punti di vista più freschi.

Tornando al nostro termine di paragone, ricordiamo che alle parti soliste, nella rappresentazione teatrale dell’antica Grecia, si univa il coro: un gruppo di circa dodici persone incaricate di collegare le scene, commentare e portare avanti la narrazione della trama. La presenza del coro è un punto nodale del tema affrontato, poiché esso è la metafora più viva della transizione che il coach deve affrontare dall’immedesimazione alla neutralità. Il coach esce dal sé dell’altro e dalla funzione di cassa di risonanza e rientra nel proprio sé e nella funzione di collettore di una strategia di consapevolezza. Le competenze chiave citate, sintesi e feedback, diventano il veicolo attraverso cui il coach unisce tutte le consapevolezze maturate dall’essere umano in un disegno univoco al servizio dell’altro. Questi può ammirare tutto l’arco narrativo della propria strategia di cambiamento, proprio come uno spettatore teatrale.

Il teatro era per i Greci uno spettacolo di massa, molto sentito e vissuto, un rituale di grande rilevanza religiosa e sociale, uno strumento di educazione nell’interesse della comunità. Agli spettacoli la popolazione partecipava in massa e probabilmente già nei primi anni di successo erano ammessi anche donne, bambini e schiavi. La rappresentazione teatrale non era dunque soltanto uno spettacolo, ma anche un rito collettivo della pólis. Il teatro, proprio per questo suo carattere collettivo, assunse la funzione di cassa di risonanza per le idee, i problemi e la vita politica e culturale. È all’interno di tale quadro che si svilupparono i due generi più fecondi della rappresentazione teatrale, cioè la tragedia e la commedia: l’una di valore mitico, l’altra di valore satirico.

Proprio nella distinzione di tragedia e commedia, in questo caso la tragedia o la commedia dell’altro, risiede il grande valore del coaching. L’uscita dall’immedesimazione e l’approdo alla neutralità non rappresentano un meccanismo di mero distanziamento e difesa, ma divengono il tratto di strada comune in cui il coach contribuisce a costruire senso per il suo compagno di viaggio attraverso la riproposizione del giusto genere della sua storia. Solo con un proficuo ascolto attivo e una raccolta meticolosa del vissuto nell’immedesimazione, la riproposizione neutrale diventerà riproposizione reale di una storia autentica e non artefatta. Se si dovesse fare una fotografia del momento, quello appena descritto è il passo aristotelico della catarsi (kàtharsin, dal greco “purificazione”), secondo cui la rappresentazione pone di fronte agli esseri umani gli impulsi passionali e irrazionali che si trovano, consciamente o inconsciamente, nell’animo di ciascuno, permettendo agli individui di sfogarli innocuamente, in una sorta di esorcizzazione di massa.

L’accompagnare in tale catarsi è per il coach un compito tutt’altro che semplice. Può ad esempio capitare che ritrovi nell’esperienza della persona che aiuta una parte di sé o che le sensazioni da questa descritte vibrino all’unisono con le sue. Il rischio è un coinvolgimento tale da smarrirsi in quei meandri o perdere il potere di aiuto nel sovvertire dinamiche complesse e raggiungere risultati.

L’equilibrio tra immedesimazione e sospensione del giudizio è quindi sì la chiave vincente ma richiede, da parte del coach, un’interrogazione costante di sé a fronte di quanto recepito, una calibrazione fluida dell’attenzione su se stesso e sull’altro, una fiducia costante nell’intuito di entrambi. In poche parole, una partecipazione intima ma discreta alla ridefinizione dell’universo altrui, sul piano fattuale e di senso. Come nel rituale dell’avvinamento si versa del vino nel calice affinché ne prenda note e sapori e poi lo si svuota, così il coach, immedesimandosi nel partner, ne assorbe il bouquet di emozioni. Poi si pone in equidistanza tra le proprie percezioni interiori e quelle del suo compagno di viaggio per accompagnarlo al meglio nella sua trasformazione.

Qui il valore più profondo del percorso immedesimazione-neutralità, che chiude il cerchio della trattazione, cioè la possibilità di attivare una catarsi, in cui il possesso della sensazione passa di mano per trasformarsi da oggetto di potenziale paralisi a stimolo per l’azione e il cambiamento.

Dott.ssa Paola Mastrorilli
Professional Coach
E-mail: paolamas76@gmail.com


Dott. Gianni Negrini

Professional Coach
E-mail: gianni.negrini@gmail.com

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