Uno dei settori della cardiologia dove, negli ultimi 50 anni, sono stati effettuati maggiori progressi è quello dell’insufficienza cardiaca, dalla diagnostica alla terapia soprattutto chirurgica; basti pensare al trapianto cardiaco e, più recentemente, al cuore artificiale.
Non altrettanto si può dire della appropriatezza di terminologia usata nella clinica.
Infatti la cardiologia moderna italiana ha ribattezzato i vari aspetti clinici della insufficienza cardiaca con il più crudo termine “scompenso cardiaco”. Peccato che nella tradizionale definizione di “scompenso” (come si studia a scuola) fosse implicito il concetto di “acidosi metabolica e tessutale”, manifestazione che, se non viene corretta in poche ore, è incompatibile con la vita. A volte, per sintetizzare, si rischia di creare confusione aggiuntiva, specialmente coniando terminologie ad effetto sul pubblico in settori delicati.
Spesso, durante la visita in corsia, il mio Primario, Prof Vittorio Puddu, soleva ripeterci e dimostrarci con la realtà clinica che tutto il complesso e articolato fenomeno dell’insufficienza cardiaca nella vita di un malato poteva essere ricondotto ad un susseguirsi di episodi di insufficienza miocardica acuta, intervallata da periodi più o meno lunghi di relativa ripresa della efficienza funzionale a riposo. Di qui, il suo paragone schematico con i rimbalzi di una pallina da tennis, lasciata cadere a terra da una certa altezza, che riportano la pallina quasi all’altezza di caduta, poi vanno affievolendosi, fino ad esaurirsi.
Nell’insufficienza cardiaca, gli episodi di scompenso sono riconducibili alle ricadute della pallina, cui seguono i recuperi della funzione miocardica, rappresentati dai rimbalzi che però sono sempre più deboli fino ad esaurirsi del tutto, come avviene nello scompenso cardiaco irreversibile.
Applicando questa griglia di osservazione, è possibile anche distinguere varie forme di insufficienza cardiaca: isolata, sporadica, ripetuta, ravvicinata, cronica, ciascuna con diverso significato prognostico, fino alla forma irreversibile. Soprattutto però, non va dimenticato che fra una ricaduta e l’altra l’intervallo può essere anche lungo e la condizione funzionale miocardica può consentire una soddisfacente vita di relazione.
Allora è ben diverso diagnosticare tout court una condizione di “scompenso” cardiaco da una di “insufficienza” che ogni tanto si riacutizza.
Dell’uso di una terminologia corretta ci può essere grato anche il paziente.
Dott. Giancarlo Gambelli
Specialista in Cardiologia
Già Primario Cardiologo Ospedale G.B. Grassi – Ostia (Roma)