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Nati per credere: religiosità ed evoluzionismo

Quando ci domandiamo perché l’uomo crede in Dio, il punto di vista dal quale poniamo la domanda è cruciale: fa una bella differenza se la domanda la poniamo, ad esempio, ad un uomo di fede, ad un filosofo morale o a uno scienziato cognitivo. In ogni caso, c’è una certa probabilità che tutti e tre, posti davanti a un meraviglioso tramonto, provino la medesima sensazione che Dio esista. Come mai?
Per prima cosa, quindi, esplicitiamo il punto di vista da cui osserveremo la questione: quello della psicologia cognitiva. Per chi è interessato a comprendere come funziona la mente umana, rispondere che la gente crede in Dio semplicemente perché Dio esiste e noi siamo fatti a Sua immagine non consente di fare grandi passi avanti. D’altro canto, anche la risposta finora più accreditata in ambito scientifico non sembra pienamente soddisfacente; questa risposta, in breve, si basa sull’ipotesi che la fede svolga una funzione di controllo sociale, e che sentirsi osservati dallo sguardo di un Dio incentivi (per Suo rispetto e per timore della Sua punizione) una serie di comportamenti morali e prosociali. In questo senso, credere in Dio costituirebbe un vantaggio per il gruppo sociale e, in definitiva, per la specie.
Negli ultimi 20 anni alcuni ricercatori (tra cui anche un gruppo di psicologi cognitivi e neuroscienziati Italiani) hanno messo in dubbio l’ipotesi che la religiosità sia il frutto di un adattamento darwiniano specifico, vale dire: essere religiosi non sarebbe una caratteristica che offre un vantaggio evoluzionistico a chi la possiede (come ad esempio avere il pollice opponibile). Piuttosto, si tratterebbe di un effetto collaterale derivante da alcuni processi cognitivi semplificati e intuitivi, questi sì utili per la sopravvivenza della specie. In particolare, la fede deriverebbe dalla nostra tendenza naturale a concepire il mondo come suddiviso in corpi e spiriti, e ad interpretare tutto ciò che ci circonda (e in particolar modo i fenomeni naturali) come se le cose non accadessero per caso, ma se ci fosse qualcuno che le fa accadere secondo un disegno intenzionale. Considerata l’enorme importanza che la comprensione delle intenzioni altrui riveste nella nostra specie, per massimizzare le proprie chances di sopravvivenza è utile ad esempio che un bambino sorrida ad una configurazione che somiglia ad un volto umano per garantirsene le cure, e che reagisca con allarme ad un movimento improvviso per proteggersi dai predatori. In questo modo, tuttavia, ci sembrerà occasionalmente che le nuvole ci sorridano o che i rami di un albero vogliano afferrarci. Così come la nostra mente spontaneamente individuerà delle facce nella forma delle nuvole, allo stesso modo, nelle mirabili geometrie della natura noi saremo portati a scorgere il Disegno di Dio. Osservando la fede da questa angolatura, la si può considerare come una conseguenza, non necessariamente vantaggiosa per la specie, di alcune credenze relative a come funzionano i fenomeni naturali. Secondo questa tesi, la fede religiosa poggerebbe sostanzialmente sulle stesse scorciatoie cognitive che caratterizzano la predilezione per il sovrannaturale, il pensiero magico, la superstizione, la fiducia nelle cure cosiddette “alternative”, eccetera. Un esempio? Chiedete a un amico se è vero oppure no che le nuvole servono a far piovere. Se vi dirà di sì avrà inconsapevolmente, ed erroneamente, attribuito un’intenzione ad una nuvola. Chiedetelo ad un bambino, e quasi certamente vi dirà che è vero. Chiedetelo ad un esperto di biologia, e più verosimilmente vi dirà di che è falso; ma se gli mettete fretta, e non gli date il tempo di ragionare, allora anche lo scienziato cadrà in errore. Vi è mai capitato di pungervi con una rosa? E non avete avuto un primo impulso a prendervela col fiore per avervi ferito? Ecco, allora anche voi avete utilizzato una scorciatoia (o euristica) cognitiva, chiamata “teleologia promiscua”.
Sulla base di questa stessa concettualizzazione è anche possibile ipotizzare che le persone meno religiose siano quelle che tendenzialmente fanno minore ricorso a queste scorciatoie cognitive. E, in effetti, alcuni esperimenti sembrano suffragare questa ipotesi. Ad esempio, si è visto che uno stile cognitivo più orientato al pensiero analitico risulta correlare negativamente con le credenze religiose o relative ad entità sovrannaturali. Si è anche osservato che attivando anche indirettamente una modalità di pensiero analitico (con un compito di lettura di parole quali: “razionalità”, “riflettere”, “ragione”, eccetera) si otteneva una minore adesione ad alcune credenze religiose rispetto ad un gruppo di controllo esposto a parole di contenuto neutro (“scarpa”, “correre”, “cacciavite”, eccetera).
In conclusione, considerata dal punto di vista dei processi cognitivi, la religiosità potrebbe poggiare su una naturale tendenza ad utilizzare procedure più rapide, economiche ed intuitive, ma anche più fallaci rispetto a processi cognitivi più sofisticati e analitici. E per quanto riguarda la divina bellezza del tramonto? Ebbene, anche all’interno dell’evoluzionismo esiste una teoria, detta dei “pennacchi evolutivi”, secondo la quale alcune delle nostre capacità più straordinarie non derivano da un singolo adattamento evolutivo. In altre parole, vedere il volto di Dio in un tramonto forse non ci ha offerto un vantaggio evolutivo, e neppure ci dice molto sul fatto che Dio esista o meno. Tuttavia, non è detto che questa nostra capacità sia soltanto un segno di ingenuità, perché potrebbe anche essere una manifestazione di un dono: la trascendenza.

Dott. Maurizio Brasini
Psicoterapeuta cognitivo-evoluzionista
Docente Universitario di Psicoterapia Individuale presso L’Università dell’Aquila
Scuola di Psicoterapia cognitiva di Roma –  www.apc.it

foto - Dott. Maurizio Brasini..

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