L’aumentata aspettativa di vita, caratterizzante gli ultimi decenni, si riflette nella maggiore longevità della popolazione che fa del bel Paese uno dei più longevi al mondo. Nella classifica stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’Italia è il secondo paese al mondo e il primo in Europa per numero di cittadini anziani rapportato alla popolazione. Un record che da un lato inorgoglisce dall’altro, però, desta preoccupazioni se non altro per le potenziali sequele negative che l’invecchiamento comporta. Proprio a causa di questa maggiore longevità sono aumentate alcune patologie come le malattie neurodegenerative, ad esempio le demenze. Con demenza ci si riferisce ad un quadro patologico che, con andamento cronico e progressivo, porta ad un declino cognitivo (ad es: difficoltà di memoria, ripetitività, disorientamento, difficoltà nel trovare le parole etc.) cui spesso si associano anche alterazioni del comportamento, che impediscono di svolgere le più comuni attività quotidiane sino a non riuscire a condurre una vita autonoma.
Quanto appena definito meriterebbe la presa in carico di questa fetta di problematicità legata all’invecchiamento della popolazione al fine di una gestione che garantisca la qualità di vita unitamente ad un adeguato funzionamento cognitivo dell’individuo.
E’ curioso, però, pensare come lo stesso scenario avrebbe sortito reazioni ben più allarmanti fino a qualche tempo addietro quando si era ancorati alla vecchia concezione del cervello come un organo fisso e immutabile. Fortunatamente, oggi, le cose stanno diversamente. Nel 1998, Eriksson e collaboratori hanno rivoluzionato la conoscenza sul cervello, documentando l’esistenza di cellule nervose in grado di riprodursi riuscendo a rimpiazzare neuroni danneggiati. Il cervello è plastico e ciò non può che significare che esiste la possibilità di agire sulla compromissione di alcune aree cerebrali, la cui espressione può giungere ai nostri occhi sotto forma di deficit, tra cui quelli cognitivi. L’impatto che questa rivoluzionaria scoperta ha sulla riabilitazione cognitiva è notevole.
La riabilitazione cognitiva, infatti, fonda il suo razionale proprio sul concetto di plasticità neuronale nonché su quello di “riserva naturale”. Quest’ultima, come affermava Stern (2002): “… può derivare dalle dimensioni del cervello o dal conteggio dei neuroni e può essere correlata alla capacità del cervello di far fronte ai danni cerebrali con approcci di processi cognitivi preesistenti o arruolando approcci compensativi”. Infatti, oltre ad essere plastico e malleabile, il cervello risulta equipaggiato da un armamentario più ricco di strumenti per fronteggiare i minacciosi cambiamenti che potrebbero comprometterne la funzionalità. Il cervello dispone, infatti, di un numero di neuroni superiori a quello di cui necessita per espletare le diverse attività così da reagire in maniera più efficiente alla perdita di cellule nervose conseguente, ad esempio, a processi di invecchiamento normale piuttosto che patologico. Questa ridondanza di neuroni interverrebbe, sostituendosi, alla perdita neuronale in un breve lasso di tempo. Ma la resilienza del nostro cervello non si esaurisce nel numero dei neuroni, ma si completa nella forza delle loro connessioni oltre che nella riserva di tutto ciò che è stato appreso durante la vita sulla base di tutte le esperienze vissute.
Queste sorprendenti capacità del nostro cervello si pongono come la conditio sine qua non della possibilità di intervenire al fine di contenere gli esiti di patologie gravi e croniche, come le demenze e i danni cerebrali acquisiti. Le risorse di cui il cervello dispone rappresentano, infatti, un’opportunità da sfruttare al meglio per fronteggiare eventi morbosi che possono, purtroppo, segnare il ciclo di vita di un individuo.
La plasticità del cervello è una premessa fondamentale agli interventi di stimolazione cognitiva che possono essere messi a punto nonché implementati nella gestione di un paziente affetto da demenza, ma non solo. Interventi come quello della stimolazione cognitiva irrobustirebbero le capacità cognitive residue al punto da compensare quelle più assopite dal processo involutivo, normale o patologico. Nel caso dell’invecchiamento normale, infatti, la stimolazione cognitiva si pone come obiettivo quello di incrementare le abilità cognitive che risentono maggiormente del fattore età al fine di raggiungere, in alcuni casi, o mantenere, in altri, un invecchiamento attivo.
Nell’invecchiamento patologico, invece, la stimolazione cognitiva tende a stabilizzare o rallentare il declino cognitivo della patologia, fornendo all’individuo un repertorio di abilità, competenze e strategie in grado di contenere la compromissione legata alla progressione della malattia.
La necessità di intervento di tipo riabilitativo diviene, quindi, indispensabile soprattutto alla luce delle potenzialità di cui dispone il cervello nonché della sua resilienza su cui i protocolli riabilitativi fondano la propria validità.
Dott.ssa Annalisa Bello, Psicologa-Psicoterapeuta
Dott. Rocco Luca Cimmino, Psicologo-Psicoterapeuta
Dott. Simone Migliore, Psicologo-Psicoterapeuta
Associazione di Psicologia Cognitiva e Scuola di Psicoterapia Cognitiva
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