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Nuove speranze per il diabete

Il diabete è una malattia del ricambio, caratterizzata da aumento del glucosio nel sangue e dalla sua comparsa nelle urine, legata in genere ad una deficiente produzione di insulina da parte del pancreas ( d. mellito ); se non curato può dar luogo a gravi complicazioni a carico dei reni, del sistema cardiovascolare e del sistema nervoso; predispone inoltre alle forme infettive. Si distingue in:
– Diabete insipido, malattia dovuta a lesioni del diencefalo e a carenza di vasopressina, così detta perché caratterizzata da notevole aumento della diuresi come nel diabete mellito, senza però che nell’urina sia presente glucosio.
– Diabete renale, con glicosuria permanente dovuta a esagerata permeabilità del rene per il glucosio, senza che tuttavia si verifichi iperglicemia; si riscontra specialmente nei ragazzi e nei giovani.
Dovremo sorvolare sui sintomi della malattia, per sottolineare il rischio che possano verificarsi le sue complicanze con scompenso metabolico e danni ai reni, apparato cardiocircolatorio ed epatico. Risulta essere una malattia molto insidiosa, cronica, progressiva e in forte aumento. Per tali motivi, la ricerca è molto incentrata a trovare una cura definitiva considerata la prospettiva di inguaribilità con gli attuali metodi di cura.
Oggi, però, ci sono nuove speranze per le persone che soffrono di diabete 2: i ricercatori dell’Università di Zurigo hanno messo a punto una nuova terapia che permette sia di curare i sintomi, sia di frenare il decorso della malattia. Sotto la direzione dell’endocrinologo Marc Donath, i ricercatori hanno individuato la molecola responsabile della morte delle cellule che producono insulina, la cosiddetta “interleukina-1 Beta. È stato inoltre possibile testare un medicamento che è un grado di bloccare l’interleukina-1Beta e che non ha mostrato effetti collaterali.
Sarebbe, in tal modo, possibile fermare il decorso del diabete 2. Bloccando la malattia, la cura dovrebbe avere effetti preventivi anche sulle complicazioni provocate dal diabete. Ciò non significa tuttavia che le persone che soffrono di diabete debbano smettere di fare attenzione a tutti i fattori predisponenti.
All’ospedale di Terni è ufficialmente partito lo studio clinico ESINODOP (Early Sleeve gastrectomy In New Onset Diabetic Obese Patients). Si tratta di uno studio clinico randomizzato no profit, senza precedenti al mondo, per la cura del diabete mellito di tipo 2 attraverso la chirurgia bariatrica mininvasiva in pazienti obesi di nuova diagnosi: in nove anni coinvolgerà 100 pazienti, alcuni dei quali già arruolati.
Lo studio è particolarmente ambizioso e potrebbe rivoluzionare la terapia del diabete mellito di tipo 2 cambiando definitivamente la storia naturale di questa malattia pandemica, ad oggi ancora incurabile e causa di gravi complicanze che compromettono la qualità della vita.
Il progetto di questo importante studio è risultato vincitore di un grant competitivo di ricerca negli Stati Uniti per un milione di dollari, finanziati dalla società di Cincinnati Ethicon Endo Surgery. La sua realizzazione è stata resa possibile anche grazie al fatto che presso l’ospedale Santa Maria di Terni è già attivo un centro multidisciplinare per lo studio e la cura dell’obesità che segue e cura centinaia di pazienti affetti da obesità e da altre malattie metaboliche quali il diabete tipo 2, anche tramite l’esecuzione delle più avanzate tecniche di chirurgia bariatrica quali la sleeve gastrectomy laparoscopica ed il bypass gastrico eseguito con tecnica robotica.
Lo studio ESINODOP è totalmente no profit ed il contratto di finanziamento con l’ente americano è stipulato per coprire unicamente le spese necessarie per lo studio, secondo le vigenti leggi italiane sulla ricerca clinica che garantiscono al team di ricerca una completa ed incondizionata indipendenza ed autonomia sia scientifica che economica rispetto allo sponsor stesso che non può in alcun modo condizionare la conduzione ed i risultati dello studio a garanzia dell’integrità scientifica ed etica del progetto.
L’intervento chirurgico mininvasivo alla base dello studio è la sleeve gastrectomy laparoscopica – spiegano i dottori Amilcare Parisi, Stefano Trastulli e Jacopo Desiderio, ideatori ed investigatori del progetto – una procedura già abitualmente utilizzata nell’ambito della chirurgia dell’obesità (o bariatrica). L’ipotesi, sostenuta anche da recenti evidenze scientifiche, è che l’esecuzione di questa procedura chirurgica in pazienti obesi subito dopo la diagnosi di diabete e prima che si siano sviluppate complicanze legate alla stessa malattia, possa curare efficacemente il diabete mellito tipo 2 e quantomeno causarne una remissione più duratura nel tempo, con il risultato di prevenire le sue complicanze disastrose anche senza la necessità di assumere farmaci antidiabetici. Ciò, viene spiegato, è anche legato al fatto che nelle fasi precoci della malattia diabetica è ancora possibile recuperare e stimolare, tramite gli effetti metabolico-ormonali indotti dalla sleeve gastrectomy laparoscopica, la produzione e la secrezione di insulina pancreatica che nei pazienti diabetici si deteriora progressivamente nel tempo fino ad esaurirsi completamente, indipendentemente dalla cure mediche farmacologiche ad oggi disponibili.
Da uno studio made in Pisa e pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Diabetologia, invece, si intravedono altri nuovi orizzonti terapeutici per il diabete di tipo 2. La ricerca, infatti, condotta fra Aoup e Università di Pisa, evidenzia che la ridotta quantità di insulina nel diabete di tipo 2 sembra essere dovuta non tanto alla morte delle cellule beta, come generalmente ritenuto, ma soprattutto al fatto che molte di tali cellule, pur vive, non riescono a produrre l’insulina, con conseguente aumento delle concentrazioni di glucosio nel sangue e sviluppo del diabete. “Lo studio – come sintetizza il prof. Piero Marchetti, coordinatore della ricerca – ha visto il contributo sostanziale di numerosi e autorevoli ricercatori e clinici (vedi riferimento a fondo pagina) dell’Università e dell’Aoup, e apre la porta a nuove possibilità di trattamento. Se si riuscirà, infatti, a capire quali sono i meccanismi molecolari che causano il cattivo funzionamento delle cellule beta, si potranno ottimizzare le nostre terapie, in modo da ripristinare la normale produzione di insulina, e così prevenire, curare e forse guarire il diabete di tipo 2″. Il diabete mellito, caratterizzato dall’aumento dello zucchero (glucosio) nel sangue, è una delle malattie più diffuse nel mondo. In Italia si stima che ci siano circa 3 milioni e mezzo di persone con diabete, di cui oltre 200.000 in Toscana. La forma di diabete più comune è quella cosiddetta di tipo 2, in cui si associano una ridotta produzione dell’ormone insulina da parte delle cellule (chiamate cellule beta) che normalmente ne garantiscono l’adeguata quantità, e una minor funzione da parte dell’insulina stessa (fenomeno definito resistenza all’azione dell’insulina). Diverso discorso per il diabete 1.
La malattia. Il diabete di tipo 1 è una malattia cronica caratterizzata dalla mancata produzione di insulina – l’ormone che controlla il livello di zuccheri nel sangue – da parte del pancreas. Alla sua base ci sono diversi fattori, ma la sua causa precisa non è stata ancora identificata. Ciò che oggi si sa è che il sistema immunitario può aggredire e distruggere le cellule pancreatiche responsabili della produzione di insulina, portando ad una carenza che ha come conseguenza un’iperglicemia pericolosa per la salute.
La terapia. Fino a poco tempo fa il diabete di tipo 1 era considerato una malattia incurabile. L’unico modo per affrontarlo era tenere sotto controllo i livelli di zuccheri nel sangue con un’alimentazione opportuna, un’attività fisica regolare e l’inevitabile assunzione di insulina. Gli avanzamenti in campo medico hanno però portato allo sviluppo di tecniche per trapiantare nei pazienti le cellule pancreatiche aggredite dal sistema immunitario. Attualmente le cellule insulari [quelle che producono insulina, ndr] vengono infuse nel fegato, ma molte di esse non sopravvivono in questo ambiente, a causa di una reazione infiammatoria che ne compromette il funzionamento. La nuova metodologia utilizzata con successo dagli esperti del nosocomio milanese permette di superare questo problema trapiantando le cellule pancreatiche sulla membrana che circonda gli organi addominali, l’omento. Su tale membrana, altamente vascolarizzata, viene impiantata un’impalcatura biotech che grazie alla presenza di plasma del paziente e trombina (un enzima coinvolto nel processo di coagulazione del sangue) forma una sostanza gelatinosa che mantiene in sede le cellule trapiantate. In una fase successiva l’organismo riassorbe gradualmente questo gel, mantenendo però intatte le cellule pancreatiche; nel frattempo si formano nuovi vasi sanguigni che le riforniscono dell’ossigeno e dei nutrienti necessari per la loro sopravvivenza.
Una tecnica che arriva dagli Stati Uniti. La procedura di trapianto è stata messa a punto al Diabetes Research Institute (DRI) di Miami, centro di eccellenza diretto dal docente dell’Università di Miami Camillo Ricordi. Qui sono stati seguiti i primi due trapianti di questo tipo effettuati nel mondo. Questa tecnica di ingegneria tissutale sarà fondamentale per permettere la sperimentazione clinica di nuove tecnologie per evitare l’uso di farmaci anti-rigetto, che oggi limitano l’applicabilità del trapianto di isole ai casi più gravi di diabete. Gli esperti ipotizzano infatti che in futuro sarà possibile applicare sull’omento microcapsule e altri dispositivi che riducano la necessità di ricorrere ai farmaci immunosoppressori.
In Canada sono state trapiantate 516 isole pancreatiche. “Non si può parlare ancora di una vera e propria cura per il diabete di tipo 1, ma è un trattamento efficace”, spiega il dott. James Shapiro, a capo dell’équipe di ricerca canadese e gli scettici fanno notare che i pazienti che ricevono il trapianto devono assumere farmaci immunosoppressori per evitare il rigetto. Questi medicinali, però, possono indurre effetti collaterali anche pesanti. I ricercatori dell’Università dell’Alberta sperano di trovare una soluzione nella creazione di cellule staminali embrionali che secernono insulina in risposta alle oscillazioni dei livelli di glucosio nel sangue dei diabetici.
Un altro gruppo di ricerca dell’Università di Montreal sta invece lavorando sullo sviluppo di un pancreas artificiale esterno. Il dispositivo contiene un sistema automatico che simula il funzionamento del pancreas: alcuni sensori misurano in maniera continua i livelli di glucosio nel sangue e forniscono l’insulina eventualmente necessaria per ristabilire la normalità.
La sua applicazione è potenzialmente rivoluzionaria in quanto il paziente non avrebbe più bisogno di pungersi il dito per misurare il suo livello di glucosio, uno degli aspetti che riducono di molto la qualità di vita del soggetto diabetico, costretto spesso anche ad alzarsi di notte.
La ricerca in questo caso è diretta dal dott. Rémi Rabasa-Lhoret, che lavora presso l’Institut de recherches cliniques de Montréal. Secondo gli scienziati canadesi, la tecnologia potrebbe essere disponibile nel giro di 5-7 anni.
Sono stati anche individuati i geni che fanno aumentare il rischio di diabete di tipo 1. Un gruppo di ricercatori di diversi istituti tra cui l’Università della Florida, ha localizzato e identificato le variazioni genetiche alla base dello sviluppo della malattia. Da questo studio, pubblicato su Nature Genetic, arrivano dunque delle informazioni precise per ulteriori ricerche allo scopo di scoprire chi è a rischio di sviluppare la patologia e come poterla prevenire. I ricercatori hanno raccolto i dati relativi al genoma di oltre 27mila individui tra i quali delle persone colpite da diabete di tipo 1. Hanno osservato le differenze nel patrimonio genetico delle due categorie. Dopo aver mappato in maniera più affinata il genoma per individuare i geni responsabili della malattia, hanno localizzato con precisione le variazioni di Dna rilevanti. Patrick Concannon, tra gli autori della ricerca, non nasconde l’entusiasmo: «Si tratta di una ricerca rivoluzionaria per questa patologia», dice. Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune in cui il sistema immunitario aggredisce e distrugge le cellule del pancreas responsabili della produzione di insulina. Insorge in genere durante l’infanzia o l’adolescenza e più raramente in età adulta (tra i due e i 25 anni). La persona colpita deve quindi assumere dall’esterno tutta o quasi tutta l’insulina di cui ha bisogno. Le cause precise del diabete di tipo 1 sono sconosciute. In Italia si stimano circa 100mila persone colpite da questa forma di diabete. È ora possibile concentrarsi su come queste variazioni alterano l’attività delle cellule immunitarie. Ciò potrebbe aiutare la ricerca a definire nuovi trattamenti che prevengano, o fermino, il diabete di tipo 1 ma anche altre malattie autoimmuni.
Abbiamo esaminato la maggior parte degli studi sul diabete che si stanno svolgendo in Italia e nel mondo. Ci si auspica, vista l’incidenza della malattia e delle sue complicanze, che possano rappresentare delle vere speranze del nostro panorama medico-scientifico.

Dott.ssa Maria Spataro
Farmacista

Farmacia Dott.ssa Maria Spataro
Via Prenestina 206 – Roma
www.farmaciaspataromaria.it

foto.MARIA SPATARO

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