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Psicoterapia cognitiva: l’utilità di un trattamento di provata efficacia per i disturbi psicopatologici

Chiamata “terapia” in breve, la parola psicoterapia comporta nello specifico una varietà di tecniche di trattamento. Durante la psicoterapia, una persona con un disturbo psicologico parla ad uno psicoterapeuta autorizzato e qualificato che la aiuta a lavorare sulla problematica fonte di sofferenza. La psicoterapia cognitiva, nello specifico, aiuta le persone ad identificare e modificare la percezioni inesatte che possono avere di se stessi e del mondo che li circonda. Per una precisazione terminologica, è utile evidenziare che anche se può esistere una forma di psicoterapia cognitiva, centrate esclusivamente su tecniche cognitive, quando ci si riferisce alla psicoterapia cognitiva, molto spesso si utilizza anche il termine di psicoterapia cognitivo-comportamentale. La psicoterapia cognitiva utilizza quindi, nella sua quotidianità, un unione sia di tecniche cognitive al fine di riconoscere e gestire le credenze, i pensieri automatici e gli schemi che causano disagio emotivo; sia di tecniche comportamentali al fine di modificare la relazione che è presente tra gli eventi problematici e le strategie di gestione della persona. Il concetto cardine è che attraverso l’analisi delle rappresentazioni mentali del paziente (credenze, pensieri automatici, schemi) si può, con un minimo d’inferenza, comprendere il disagio psicologico e il suo mantenersi. Le reazioni emotive disfunzionali e il disagio quindi, sono frutto di distorsioni di tipo cognitivo e la patologia è frutto di pensieri, schemi e processi disfunzionali. La non modificazione di questi, contribuisce al mantenimento del disturbo. Quindi la mente di una persona è considerata come un sistema di scopi e credenze con cui un individuo valuta la propria esperienza sperimentando le conseguenti reazioni emotive e comportamentali. I sintomi psicopatologici (anche quando appaiono bizzarri e irragionevoli) sono da considerarsi come l’espressione di attività finalizzate al raggiungimento di un obiettivo, presente nella mente di una persona. Ora per sottolineare l’importanza di un trattamento è utile avere qualche dato sulla frequenza dei disturbi verso cui questo si rivolge, a tal fine bisogna fare riferimento ai dati del progetto ESEMeD del 2004. Questo è il primo studio epidemiologico sulla prevalenza dei disturbi psicopatologici effettuato in un campione rappresentativo della popolazione adulta generale italiana. Emerge che poco più di un soggetto su cinque ha sofferto di un disturbo mentale nel corso della vita, mentre uno su quindici ha sofferto di un disturbo mentale nei 12 mesi precedenti allo studio in questione. Dal punto di vista diagnostico, circa l’11% delle persone intervistate ha sofferto di un disturbo affettivo o di un disturbo d’ansia nel corso della vita, mentre la percentuale di coloro che hanno presentato un disturbo da abuso/dipendenza da alcool è molto minore (1,0%). Per quanto riguarda la prevalenza ad un anno, il 5,1% dei soggetti ha soddisfatto in questo arco temporale i criteri diagnostici per un disturbo d’ansia (di qualsiasi tipo), il 3,5% quelli relativi ad un disturbo affettivo e lo 0,1% infine i criteri relativi ai disturbi da abuso/dipendenza da alcool. La depressione maggiore e le fobie specifiche sono risultati i disturbi più comuni: circa il 10% del campione nazionale ha sofferto, nel corso della propria vita, di depressione maggiore, ed il 3% ne ha sofferto nei 12 mesi precedenti all’intervista. Per quanto riguarda le fobie specifiche, il 6% circa ha soddisfatto i criteri diagnostici per questo disturbo nel corso della vita, mentre in poco meno del 3% degli intervistati, esso è stato presente nei 12 mesi precedenti. Oltre la depressione e le fobie specifiche, altri disturbi abbastanza comuni nel corso della vita sono risultati la distimia (3,4%) ed il disturbo da ansia generalizzata (1,9%); per questi due disturbi nei precedenti 12 mesi i tassi di prevalenza erano pari all’1 ed allo 0,5%. Questi dati pongono un obiettivo molto importante ad un approccio psicoterapico, ovvero non solo l’importanza di rispondere concretamente ma anche di farlo in modo scientificamente valido e replicabile. Tale obiettivo è centrale nella psicoterapia cognitiva. Attualmente studi scientifici e fonti autorevoli quali la American Psychiatric Association (APA) e le linee guida NICE (National Institute for Health and Care Excellence) mettono in evidenza come la psicoterapia cognitivo-comportamentale sia un trattamento efficacie, da consigliare al paziente come primo ed elettivo intervento, per molti disturbi. Nel 1995 anche la Divisione di Psicologia Clinica dell’American Psychology Association ha pubblicato i dati scaturiti da un’indagine condotta da una Task Force, relativa ai risultati di vari trattamenti psicologici e psicoterapeutici empiricamente supportati ed ha pubblicato anche una linea guida per la pratica professionale. In questo lavoro si dividono tra trattamenti psicoterapeutici di provata efficacia e trattamenti psicoterapeutici di probabile efficacia. Da questo studio emerge che la psicoterapia cognitivo-comportamentale è risultata di provata efficacia per quanto riguarda la depressione, l’ansia, il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo post traumatico da stress, i disturbi del comportamento alimentare, i disturbi di personalità, l’abuso e la dipendenza da alcol, le disfunzioni sessuali, l’enuresi e l’encopresi infantile, il comportamento oppositivo e la fobia sociale. In conclusione questo articolo, se pur breve ed incompleto, mette in risalto l’utilità di conoscere ed utilizzare la psicoterapia cognitiva, di fronte a problemi psicologici in cui questa si è dimostrata di chiara efficacia. Questa, quando utilizzata all’interno di un percorso di cura, comporta dei cambiamenti essenziali ed importanti in una persona, cambiamenti unici che sono diretti da un terapeuta che ha in mente una chiara strada di gestione della problematica. Nella fase iniziale i cambiamenti più rilevanti riguardano il benessere soggettivo, il senso di padronanza e la speranza (remoralization); nella seconda fase si rileva una più cospicua riduzione dei sintomi, l’attivazione delle capacità di coping e la soluzione di problemi (remediation). I progressi nel funzionamento sociale, la modificazione delle abitudini di vita e il raggiungimento di nuovi obiettivi esistenziali sono i più lenti a maturare e caratterizzano l’ultima fase (rehabilitation). In virtù di questo, la considerazione che la psicoterapia cognitiva deve avere nel mondo delle scienze della salute, necessità di un cambio di prospettiva: dal consigliarla “perché tanto male non fa”, al prescriverla “perché è efficace ed indicata nelle linee guida di trattamento”.

Dott. Brunetto De Sanctis
Psicologo e Psicoterapeuta

foto.de sanctis

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