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Togliersi la vita in periodo di crisi

Crisi economica, indebitamento, disoccupazione sono gli scenari in cui vediamo crescere il numero di suicidi. Le stime parlano di un incremento dal 2008 (anno dell’inizio della crisi) ad oggi, con un picco registrato tra il 2012 e il 2013.

Tuttavia, possiamo includere il peggioramento delle condizioni economiche tra le cause dirette o considerarle più correttamente come fattori di rischio che facilitano il ricorso a gesti così estremi? In generale, i fattori di rischio sono associati a un incremento della probabilità di occorrenza di un evento, mentre i processi causali ne spiegano gli esiti.

Ad esempio, riguardo al disagio economico, le ricerche che hanno prodotto dati sul fenomeno, sembrano concordare nell’attribuire alla disoccupazione il ruolo di antecedente il suicidio. La perdita del lavoro o l’impossibilità a trovarne uno, tuttavia, sono solo due tra gli elementi di una lista piuttosto lunga che include tra gli altri l’isolamento sociale, i conflitti familiari, le esperienze di abuso, la presenza di psicopatologia, l’impulsività. In altri termini, la perdita del lavoro sarebbe associata a un rischio molto elevato non in tutti, ma soltanto negli individui vulnerabili, individui che sembrano presentare caratteristiche psicologiche costanti.

A questo proposito, la psicologia cognitiva offre una spiegazione dei comportamenti in esame fondata sulla considerazione di queste caratteristiche ed individua i determinanti cognitivi che definiscono la mente della vittima nell’imminenza del suicidio.

Che cos’ha un uomo nella testa, prima di fare l’ultimo passo? Secondo una teoria interpersonale, sarebbero tre le variabili psicologiche che spingono al suicidio: la percezione di non appartenenza senza speranza di cambiamento, la convinzione di essere definitivamente un peso per gli altri, un basso timore della sofferenza fisica e della morte. Le prime due correlano con il desiderio di morire e rappresentano la causa di un’ideazione suicidaria di tipo passivo (“sarebbe meglio se fossi morto”). La mancata soddisfazione del desiderio di appartenenza è accompagnata da un intenso vissuto di solitudine e da un’esperienza di sofferenza riconducibile all’assenza di reciprocità di cura e affetto. Nel secondo caso, invece, appaiono centrali le credenze relative all’essere un peso per la propria famiglia o la convinzione di essere componente sacrificabile. I conflitti familiari, la mancanza di un impiego e la presenza di malattie sono i principali fattori di rischio che prestano il fianco alla comparsa di simili stati mentali.

Quando la disperazione accompagna la mancanza di appartenenza e la percezione di essere un peso, allora il desiderio di suicidarsi diventa più attivo (“Voglio uccidermi”).

Non è tutto. Il desiderio di morire non è sufficiente a produrre un tentativo dagli esiti letali, semplicemente perché togliersi la vita non è cosa facile da fare. Ed è qui che entra in gioco la capacità di suicidarsi, una condizione che include tutte quelle esperienze di sensibilizzazione che producono una diminuzione della paura dei comportamenti suicidari. Si tratta di quei comportamenti non letali che precedono un tentativo vero e proprio e che, grazie alle ripetute esposizioni al dolore, si configurano come una sorta di desensibilizzazione alla paura di morire e alla sofferenza fisica. Una palestra che prepara alla morte.

In definitiva, ridurre la crisi economica è auspicabile, ma non protegge gli esseri umani dagli effetti delle credenze descritte. Il compito davvero difficile è assemblare protocolli psicoterapeutici in grado di modificare stabilmente gli stati mentali prossimi l’ideazione suicidaria.

Prof. Francesco Mancini
Medico, specialista in Neuropsichiatria Infantile, Psicoterapeuta
Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dell’Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma

foto.prof.mancini

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