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Il linguaggio delle emozioni

Il fascino delle emozioni è che ti sanno trovare… sempre

Avrete spesso sentito dire che il mondo ci rispecchia. Le modalità comunicative con l’ambiente circostante dipendono in gran parte da come ci interfacciamo con le emozioni che l’“altro” suscita in noi. Protesi ad ascoltare, comprendere e accogliere ciò che ci arriva dall’esterno, dimentichiamo spesso l’importanza di ascoltare, comprendere e accogliere quello che emerge dal nostro mondo interiore. Ci facciamo attraversare dalle emozioni senza capirle realmente o prendere in considerazione il messaggio che portano con sé. E questo ha dell’incredibile, essendo parte integrante del nostro sistema di vita, assieme alla nostra natura razionale.

Sono laureata in Lingue e letterature straniere. Il mio percorso di studi accademico è stato improntato allo studio di discipline oggi quanto mai importanti per l’interpretazione della realtà, quali la Linguistica, la Sociolinguistica e la Psicolinguistica. Queste mi hanno aiutata a cogliere l’importanza del linguaggio emozionale su scala individuale e collettiva. Ne è un esempio il marketing emozionale, che ricorre alla Psicolinguistica per conoscere il sistema emozionale del target di riferimento e associare ai brand sensazioni e ricordi piacevoli. È in questo modo possibile creare esperienze e prodotti “memorabili”, che rimangono cioè a lungo nella memoria del potenziale cliente e ne influenzano il comportamento futuro. Facebook ne è solo un esempio.

Secondo lo psicologo israeliano Daniel Kahneman, vincitore di un Premio Nobel nel 2002, quando un individuo si trova a dover prendere decisioni in condizioni di incertezza, fa appello non tanto a modelli di tipo razionale quanto al proprio apparato emotivo, affidando alle emozioni molti processi decisionali. Nel suo libro Pensieri lenti e veloci, l’autore ci ammonisce dal pensare che la ratio sia la corsia preferenziale usata per affrontare scelte importanti e operare quella più vantaggiosa, mostrando come siamo invece profondamente esposti a condizionamenti di tipo emozionale.

Se in un mondo multietnico e con frontiere aperte come quello attuale è importante conoscere almeno un’altra lingua oltre a quella nativa, è quindi altrettanto prezioso conoscere quella delle proprie emozioni, che ci contraddistingue come individui e ci rende unici rispetto a chiunque altro. Siamo infatti parte di più sistemi e sottosistemi: come esseri umani, il nostro primo insieme di riferimento è il mondo, ma apparteniamo anche ai sottosistemi del nostro Paese di nascita, della nostra cultura di riferimento, del nucleo familiare in cui nasciamo e così via. Ognuno di questi contesti è portatore di un linguaggio specifico, che contribuisce a influenzare il nostro pensiero e a plasmare modelli comportamentali. Al centro ci siamo noi, fatti di emozioni, personali e acquisite, con la loro personalissima modalità comunicativa. Quelle personali parlano della parte più profonda di noi, che incide in modo apparentemente silente su modi d’agire e relazioni interpersonali, reclamando il nostro ascolto.

Possiamo quindi imparare a lavorare in sinergia con le nostre emozioni più autentiche, apprendendo innanzi tutto il linguaggio che usano per richiamare la nostra attenzione sui loro desiderata. Farlo può sembrare una cosa tutt’altro che semplice, ma è un viaggio profondamente affascinante alla scoperta di territori inesplorati del nostro sé. Alla conquista di quell’autenticità e unicità a cui tanto aneliamo. È come scolpire una statua partendo da un blocco di pietra e scavare, rimuovere ciò che non è utile e necessario, in cerca della forma che è già dentro al blocco.

Il coaching è, in questo senso, uno strumento molto potente. Consente di interagire empaticamente con le emozioni integrando nel processo tutte le parti di noi, ascoltandole ed equilibrandole. La nostra parte emozionale ama il linguaggio metaforico e simbolico? Bene, il coaching ci aiuta ad aprire una finestra in questo universo e, letteralmente, a studiare gli elementi che contribuiscono a comporre questa lingua.

Questo è tanto più evidente quando con il coaching affrontiamo questioni legate a comportamenti disfunzionali – che ci allontanano cioè dal nostro obiettivo finale – ripetitivi. Analizzando un comportamento che tende a reiterarsi nel tempo, ci accorgiamo di come parte razionale e parte emozionale possano facilmente entrare in conflitto. Può ad esempio capitare che siamo perfettamente consci del fatto che aggredire un determinato collega in fase di riunione sia “sbagliato”, nel senso che nuoce allo spirito di squadra e alla nostra relazione professionale. Eppure, nonostante gli sforzi sovrumani per controllare la rabbia, i propositi di placarla non appena la sentiamo emergere, le motivazioni infuse di raziocinio per cambiare strategia, ad ogni occasione, caschiamo nel medesimo comportamento.

In questi casi, succede semplicemente che ci dimentichiamo di noi. Possiamo provare in tutti i modi a capire le ragioni dell’altro, a metterci nei suoi panni, a inglobare la sua prospettiva nel nostro modo di pensare, ed è sicuramente una cosa molto utile. Saltiamo però un passaggio fondamentale: l’ascolto dell’emozione profonda che sottende il nostro comportamento e ci “ricatta” fin quando non le concediamo la nostra attenzione. È ad esempio possibile che la rabbia ci stia invitando a porre dei limiti a qualcosa o qualcuno nella nostra vita, oppure che si stia facendo attiva e rumorosa portavoce di un’altra emozione, la paura, a cui non abbiamo prestato ascolto e che ci sta parlando del nostro timore inconscio di perdere (potere, terreno, amore ecc.).

Erich Fromm scriveva: “Nella nostra società le emozioni in generale vengono scoraggiate. Benché senza dubbio il pensiero creativo, come ogni altra attività creativa, sia inseparabilmente legato alle emozioni, è diventato un ideale pensare e vivere senza emozioni. Essere emotivo è diventato sinonimo di instabile e squilibrato”. Il coaching ritronizza le emozioni, a prescindere dalla loro qualità, fornendoci tecniche e strumenti elaborati negli anni per apprenderne il linguaggio e le modalità di interazione con le altre parti del sé.

Prendendo il caso della rabbia, possiamo interrogarla, accoglierne i contenuti e quindi rivolgerle domande che l’aiutino ad ampliare il suo punto di vista. Personalmente mi raffiguro la rabbia sempre come un guerriero saggio che protegge i confini del suo territorio. In questa immagine sono inclusi i due aspetti dell’emozione: la protezione e la saggezza. Il coaching mi aiuta a interloquire con questa metafora affinché mi sveli il suo messaggio: “Cosa stai cercando di proteggere?” e “Cosa vuoi risanare?”. Con questo “semplice” spostamento concettuale, abbiamo l’opportunità di trarre un prezioso insegnamento da noi stessi, rafforzandoci.

In questo senso il coaching ci abitua a sviluppare quello che chiamiamo lo sguardo dell’abbondanza che non è, come sembrerebbe di primo acchito, una visione edulcorata delle cose, bensì una prospettiva a 360° sulla realtà esterna e su quella interiore che ci caratterizza. Partendo da qui, possiamo guardare senza paura agli elementi negativi (come le emozioni solitamente ritenute intollerabili) e trasformarli, ottenendo così un carburante inestimabile (le azioni) per raggiungere la nostra meta.

Durante questo viaggio col coaching cambia il partner ma, vi assicuro, cambia anche il coach!

Dott.ssa Paola Mastrorilli

Professional Coach

E-mail: paolamas76@gmail.com

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